Beppe Franzo ribalta le accuse: "Tutti i gruppi condividevano le ragioni della protesta, a nessuno era impedito niente"
"Lo sciopero del tifo? In realtà era una violenza contro di noi". Lo ha detto Beppe Franzo, 56 anni, tifoso della Juve, considerato uno degli imputati-chiave del processo Last Banner: la causa, ripresa oggi in tribunale a Torino, riguarda alcuni esponenti dei gruppi ultrà bianconeri con accuse (che nei casi più gravi arrivano all'estorsione) legate a presunte pressioni esercitate contro la società.
Franzo, che non è legato a nessun gruppo organizzato, era presidente di un'associazione chiamata 'Quelli di via Filadefia' e si occupava delle coreografie della curva, ha spiegato che nella vicenda, risalente al 2019, si ritrovò ad avere il ruolo di intermediario fra ultrà e società. Lo sciopero del tifo, diretto contro il caro-biglietti secondo gli ultras, era una iniziativa analoga ad altre che c'erano state in Italia o in Inghilterra. "L'adesione - ha detto - fu unitaria. Tutti i gruppi condividevano le ragioni della protesta anche se, naturalmente, le rispettive metodologie potevano cambiare: c'era chi, per esempio, esponeva gli striscioni al contrario. Magari i gruppi decidevano di non cantare o di non scandire slogan, ma tutti gli altri tifosi erano liberi di farlo. Certo, senza un 'lanciacori' a coordinare le persone, spesso le grida naufragavano nel nulla. Ma a nessuno veniva impedito niente".
Franzo, su richiesta del difensore, l'avvocato Ennio Galasso, ha parlato anche dei "momenti positivi" nel rapporto con Alberto Pairetto, lo Slo della Juventus. "Dopo una trasferta a Firenze mi chiamò per dirmi che la Questura di quella città aveva elogiato gli ultrà per i cori in favore di Astori (il capitano viola morto all'improvviso nel 2018)". Parole distensive, dopo alcune ruggini emerse in precedenti udienze.
Fonte: Torino Oggi
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